Cerca nel blog

lunedì 31 ottobre 2016

Is Animeddas


La celebrazione della vigilia di Ognissanti, in Sardegna, prende il nome di Is Animeddas (Sardegna del Sud) o Su Mortu Mortu (Sardegna del Nord), ma le denominazioni cambiano da paese a paese (Su Prugadoriu a Seui, ad esempio).

Is Animeddas non è un assaggio di “Carnevale” come è stato detto, e con le usanze scozzesi, non lo metto in dubbio meravigliose, ha in condivisione la sensibilità umana. A tirar su il naso per aria ci si rende conto facilmente che tra la fine di ottobre e gli inizi di novembre le giornate si fanno drasticamente più corte e le ore di buio aumentano spaventosamente. Per chi sa che il regno dei morti è fatto di buio, non è troppo difficile capire perché in buona parte del mondo si è certi che proprio durante questi giorni, chi lo desidera, possa ritrovare un contatto con i propri avi defunti. In Sardegna il culto dei defunti e la riverenza nei confronti delle anime, che esse siano bonas o malas è antico come le pietre e non accenna a voler scomparire.
La Sardegna celebrava quelle giornate magiche che dividono ottobre da novembre con rituali e festeggiamenti simili in tutta l’isola: is animeddas, is mortus, sos mortos, o su mortu mortu.

La tradizione isolana non ne dubita, la notte del 31 di ottobre il portone che costringe altrove le anime del purgatorio si apre d’improvviso permettendo a queste d’abitare le case che un tempo furono di loro proprietà, o di visitare quei luoghi ai quali, per l’uno o per l’altro motivo, si sentono profondamente legate.

I bambini sardi nella magica notte, vagavano vestiti di stracci, quasi a voler simboleggiare le anime dei piccoli defunti e bussavano di porta in porta domandano secondo una formula che differisce di località in località, una piccola offerta per le anime costrette fra il paradiso e l’inferno. Secondo l’uso locale, che lentamente si sta riscoprendo, potreste dunque sentirvi chiedere , ripetuto in cantilena: “seus benius po is animeddas” oppure “mi das fait is animeddas” o ancora “su bene de sas ànimas” o “carki cosa po sas ànimas”.



domenica 23 ottobre 2016

Dall'infanzia alla primaria: inizia un nuovo viaggio

La vita scolastica del bambino dalla scuola dell'infanzia alla scuola primaria  sarà completamente diversa: avrà nuovi insegnanti da ascoltare e a cui fare riferimento, nuovi amici con cui condividere le gioie e i dolori, nuovi libri e nuovi quaderni.
Avrà il patema d’animo il primo giorno e la felicità negli occhi al primo bel voto, imparerà a scrivere il suo nome e a leggere le scritte sui cartelli stradali e le insegne dei negozi.
Sarà un bambino della scuola primaria e così avrà inizio il suo lungo viaggio all'interno del mondo scuola.
Un salto che corrisponde alla fine di una fase della vita del bambino: quella della prima infanzia.

14 Settembre 2016

domenica 28 agosto 2016

Buon anno scolastico a tutti!

Buon anno scolastico a tutti!
Buon anno a chi già c'era e a chi è appena arrivato...
Buon anno a chi teme le novità e a chi è sempre pronto alle sfide del cambiamento...
Buon anno a chi è andato
Buon anno a chi è rimasto
Buon anno a chi vive la Scuola a chi ci crede... a chi è convinto che sia possibile...
Buon anno a chi ha voglia di ESSERCI !!!

sabato 25 giugno 2016

Ciao, ciao Scuola Primaria

In questi cinque anni ci siamo conosciuti, abbiamo e avete studiato insieme , siamo e siete diventati amici. Ricordo la prima quando eravate piccoli piccoli, teneri ed impauriti, come pulcini. Noi maestre ci siamo subito “rimboccate le maniche” e vi abbiamo ”catapultato” in un nuovo mondo, la scuola primaria. Avevate paura, ma allo stesso tempo eravate contenti, perché orgogliosi di entrar a far parte di quella scuola e vi faceva sentire più grandi. Noi insegnanti ci siamo impegnate fin dal principio a rendere il vostro 'cervello' critico, privo di pregiudizi e di luoghi comuni grazie anche all'aiuto delle famiglie e il territorio. Chissà se siamo riuscite nell'intento! Prima ad ogni prova di verifica pensavate: “Ah, che spavento!” Ora, invece, più sicuri di voi stessi, pensate: “Ce la posso fare, niente è impossibile, basta solo impegnarsi!” Poco a poco avete imparato a “VOLARE”, sicuri nel cielo blu come i palloncini che hanno fatto da fil rouge nel nostro percorso scolastico, Non dimenticate le nostre battute, le nostre chiacchierate, le sgridate, i compiti, le amicizie e tanto altro ancora. Io non lo dimenticherò e sono sicura che abbiamo cercato di vivere questo periodo al meglio pur con i punti di forza e i punti critici che sicuramente vi hanno fatto crescere. Io sono sicura che le conoscenze che avete imparato serviranno per tutta la vita. La fine del mio primo ciclo di studi è un po’ triste ma allo stesso tempo è molto allegro perché ora inizia un nuovo e fantastico viaggio nella scuola primaria di primo grado. Buona vita agli alunni della 5^A del tempo pieno di via Sicilia (quinquennio 2011-2016)

sabato 27 febbraio 2016

sabato 6 febbraio 2016

Pensiero computazionale



Accomunate dal percorso e dal pensiero,  condivido in questo spazio la riflessione della collega.

Coding for everyone! Perché decidere di diventare insegnanti “computazionali”


Grazie ad una cara collega e amica, in questi giorni ho avuto l’opportunità di entrare in contatto con la comunità virtuale di EMMA(EuropeanMultipleMOOCAggregator) una piattaforma europea che si occupa di gestire e favorire i MOOCs. I MOOCs “sono la più recente evoluzione dell’apprendimento online” e permettono a utenti di tutto il mondo di formarsi, apprendere e confrontarsi attraverso una serie di corsi gestiti da una rete di università europee. Tra questi ha preso avvio proprio ieri (con la prima lezione in streaming) un corso, a mio avviso, molto interessante: “Coding in your Classroom, Now”, gestito dall’Università di Urbino e tenuto dal docente Alessandro Bogliolo. Ora, senza entrare in merito alla struttura del corso e al metodo, è importante capire di cosa si tratta esattamente. Perché chi non ha mai sentito parlare di coding (termine informatico legato principalmente alla programmazione) potrebbe avere, sino a questo punto, grandi difficoltà a capire cosa significhi “fare coding in classe”. L’idea del corso è quella di introdurre il pensiero computazionale in classe attraverso il coding (quindi il linguaggio informatico e non solo), usando attività intuitive e divertenti da proporre direttamente agli alunni. Gli insegnanti si formano e sperimentano contemporaneamente. Non bisogna cadere però nel tranello di pensare “Io con l’informatica non ho niente a che fare… Il linguaggio informatico è freddo e impersonale… Meglio stare nel metodo tradizionale”. Posto che esista un metodo tradizionale serio ed efficace ma soprattutto universale, posto che non bisogna essere programmatori per applicare il metodo computazionale… assodato che anche l’informatica ha un cuore (basti pensare ai mondi che è riuscita a generare, alla creatività e alla fantasia dei programmatori che hanno regalato un nuovo modo di vivere la realtà… o ai progressi fatti anche in ambito didattico dovuti a software sempre più innovativi) il pensiero computazionale può essere per tutti. Forse già lo utilizzate e non ne siete consapevoli… proprio come un po’… è capitato a me. Segnatevi da qualche parte la parola CONSAPEVOLEZZA perché ci tornerò a breve e focalizzerò la mia attenzione proprio su questo aspetto.
Iniziamo a pensare al coding come un nuovo linguaggio (si ritiene che possa essere addirittura paragonato a una L2) che permette di esprimere, divertendosi, la naturale tendenza che abbiamo a creare e a sviluppare nuovi percorsi in grado di renderci più semplici le cose. Questo tipo di linguaggio (semplice e rigoroso) non fa altro che favorire e sviluppare il pensiero computazionale. Noi impariamo ad “esprimerci” con un nuovo linguaggio e, allo stesso tempo, sviluppiamo un nuovo modo di pensare e risolvere problemi. Quando dobbiamo programmare una macchina è necessario fornirle una serie di istruzioni semplici, dettagliate, efficaci e rigorose. Non facciamo altro che spiegare alla macchina quale procedimento applicare per risolvere una serie di “problemi”. Questo procedimento non è altro che la spiegazione di un ragionamento che dev’essere portato avanti per raggiungere l’obiettivo prefissato. Noi stessi, quando abbiamo la necessità di spiegare quale ragionamento abbiamo fatto per ottenere un risultato, dobbiamo sforzarci a formulare degli enunciati chiari e precisi al fine di essere compresi. Questo è possibile però solo nel caso in cui noi ci siamo resi consapevoli del procedimento utilizzato. E qui torniamo al discorso della consapevolezza. Vi faccio un esempio pratico. A scuola mi capita spesso di leggere con i bambini delle immagini. Loro ovviamente osservano l’immagine e immediatamente mi sanno dire di cosa si tratta. Poniamo che io abbia mostrato loro questa illustrazione
APRILE09 003
Cosa rappresenta? I bambini probabilmente risponderanno subito “siamo all’ospedale”. Ma se io chiedo perché e come fanno ad esserne sicuri loro mi diranno lapidari “Si vede”. A questo punto io insisto per stimolare in loro la consapevolezza del fatto che il loro cervello è molto abile (anche a loro insaputa) a decodificare i segni (gli elementi rappresentati nel disegno) e a trovare dei significati che permettono di leggere l’immagine immediatamente. Proviamo così a vedere pezzo per pezzo cosa il nostro cervello ha captato con la vista, registrato e elaborato col cervello. A quel punto i bambini iniziano a elencare tutti quegli elementi che caratterizzano l’ambiente “ospedale”: “Ci sono tanti letti” – “Un bambino ha la gamba ingessata” – “Un medico prende degli appunti” – L’infermiera somministra una medicina”. Ma io incalzo con altre domande: “Il fatto che ci siano tanti letti ti fa capire che siamo in una stanza di ospedale? Non hai mai visto una cameretta con tanti letti?” – “Ok, il bambino ha la gamba ingessata… ma non per questo (solo per questo!) possiamo dire che si trovi in ospedale” – “Come fai a sapere che quel signore (che poi è un animale… ma al bambino questo non importa, non è determinante che gli animali non frequentino ospedali) è un medico e quella signora un’infermiera?”. A questo punto bisogna fare i conti con la consapevolezza e i bambini hanno una sorta di “illuminazione”: i letti sono di ospedale perché hanno la cartelletta appesa sopra; il bambino ha la gamba ingessata e con lui ce ne sono anche altri malati (“Maestra, si vede dalle immagini!!!); quel signore è un dottore perché ha il camice e l’infermiera ha quella cosa strana in testa (è strana ma ha assunto già un significato preciso per loro). A questo punto faccio notare loro quanto sia complesso e intelligente il loro cervello che in pochissimo tempo ha dato una risposta elaborando tutte queste informazioni insieme e “Voi adesso l’avete smascherato e avete capito come funziona. Quando vi dovrete confrontare con nuove immagini, magari più complesse, ricordatevi che procedimento avete usato oggi. Come potreste fare?”. Capite bene che a questo punto starà a noi insegnanti stimolare il bambino a prendere coscienza dei procedimenti applicati e a fargli capire che una volta compreso il meccanismo sarà poi possibile applicarlo anche per altri “problemi” analoghi. È ovvio che nel caso dell’immagine – che può essere più o meno complessa – non sempre possiamo applicare alla lettera la codifica degli elementi che la compongono (entrano in gioco infatti sia gli aspetti connotativi che quelli denotativi) ma il risultato più importante l’abbiamo raggiunto: abbiamo utilizzato il pensiero computazionale e potremmo avvalercene in altre esperienze simili.
Questo tipo di esperienza può essere fatta in tutte le discipline, sta a noi trovare la nostra strada per mostrarla ai nostri alunni. In matematica io lavoro così da anni… e non ne ero consapevole. Quante volte da un’intuizione di un bambino siamo riusciti tutti a trarne giovamento grazie alla “consapevolezza condivisa” del come sia stato possibile arrivare a quella intuizione? Arrivare ad una soluzione nuova e non far cadere nel vuoto quella scoperta può diventare un tesoro per tutti se riusciamo a far capire al bambino e ai compagni come “ci si è arrivati”, che tipo di procedimento la nostra mente ha messo in atto. Si tratta, con domande mirate, attività ludiche e metodi studiati ad hoc, di permettere ai bambini (ma anche a noi stessi) di: imparare a condividere verbalmente i meccanismi attivati; diventare consapevoli del procedimento utilizzato; metabolizzare le strategie; trasformare l’esperienza in modo costruttivo per il futuro.
Molte volte, durante i percorsi laboratoriali e di scoperta in ambito matematico, ho sentito la frase “Maestra, questo sono riuscito a farlo anche se non lo sapevo!” oppure “Per risolvere questo mi è venuto in mente quel compito dell’altro giorno… anche se è un po’ diverso”. Queste per me sono occasioni da prendere al volo prima di tutto per far capire loro che la mente è grande e potente ma anche per scoprire insieme come sia stato possibile arrivare a quella soluzione e “svelare così i segreti della nostra mente”. I bambini si entusiasmano sempre molto quando si cerca di carpire segreti e svelare misteri… e il poterlo fare con quello strano oggetto che risiede nella loro testa diventa ancora più affascinante.
Questo per me, che sono solo all’inizio del corso, è il pensiero computazionale, è fare coding… è avviare il metodo. Trasformare un’intuizione in un procedimento costruttivo e riuscire poi ad utilizzarlo per altri problemi analoghi. Ma sono solo all’inizio quindi sono certa che scoprirò molto e molto di più. Credo di aver esplorato (e per di più in maniera inconsapevole) solo una minima parte del coding e non vedo l’ora di carpirne tutti i segreti perché lo sento molto nelle mie corde.
Per ora mi sento serena nell’affermare che i bambini acquisiscono naturalmente questo tipo di linguaggio, se stimolati nel modo giusto, anche per il tipo di meccanismo di apprendimento a cui il coding si rifà: i giochi ad incastro (i cari e vecchi puzzle) e i percorsi.
Ma questa è un’altra storia…

lunedì 25 gennaio 2016

Il carnevale sardo - Su carrasecare



Il carnevale che sopravvive all'interno dell’isola si presenta con tratti assai arcaici.
Non ha niente a che fare con i carnevali trasgressivi che comportano travestimenti e capovolgimenti di ruoli. É un carnevale tragico e luttuoso, basato sul concetto di morte e rinascita, teso alla richiesta della pioggia e alla commemorazione di Dioniso, dio della vegetazione e dell’estasi, che ogni anno muore e rinasce nel ciclo naturale dell’eterno ritorno.
La parola carrasecare (carre de secare), con la quale si designa il carnevale sardo, etimologicamente significa carne viva da smembrare. I seguaci di Dioniso infatti laceravano capretti e torelli vivi per ricordare la morte del dio che era stato sbranato dai titani.
Osservare le arcaiche maschere dell’interno della Sardegna, vestite di pelli, cariche di campanacci o di ossi animali, col volto annerito dal sughero bruciato o coperto da una maschera nera, significa fare un tuffo nella preistoria. Mimano la passione e la morte di Dioniso Mainoles, il cui nome in Sardegna si è corrotto in Maimone, nome che viene dato genericamente a tutte le maschere. La cattura e la morte di Dioniso viene rappresentata attraverso la cattura e la morte di una vittima sostitutiva.
Le maschere si muovono in una sorta di danza zoppicante che rappresenta lo squilibrio deambulatorio tipico delle feste dionisiache. Di questo culto è rimasta la gestualità, il ritmo, gli strumenti sonori e quelli agricoli che le maschere si portano dietro, nonché il laccio per catturare la vittima e la soga con cui veniva legata. Questa vittima viene generalmente presentata sotto forma di capro, toro, cervo, cinghiale, tutte ipostasi di Dioniso che sotto questi aspetti si manifestava. I carnevali tradizionali rappresentano tutti questo rito. Si differenziano da un paese all'altro perché ciascuno ha conservato un momento diverso di questa rappresentazione. Figure vestite a lutto piangono la morte del dio e con esso la fertilità che viene a mancare.Appaiono uomini col gabbano nero, il cappuccio calato sugli occhi, il volto annerito. Tutti segni di lutto profondo perché con la morte del dio muore, per un certo periodo, anche la fertilità della terra. Ci troviamo pertanto davanti ad un rito agrario antichissimo. Sono gli ultimi retaggi di un culto dionisiaco sopravvissuto a livello d’inconscio, le cui tracce sono però ancora evidenti.
Culto che un tempo era presente in tanti paesi dell’area mediterranea e che in Sardegna, per quanto banalizzato e relegato nel carnevale, poté sopravvivere proprio perché era legato alle annate agrarie e allo spettro della siccità, che bisognava esorcizzare ripetendo il rito del Maimone. Ancora nel 1700, secondo le testimonianze del gesuita B. Licheri, tutte le maschere avevano le spalle cariche di ossi animali, anziché di campanacci, che agitavano ripetutamente perché dalle ossa si rigenera la vita. Dioniso era divinità agraria traco-frigia, antichissima, la più importante nel mondo agropastorale, come rivelano le tavolette in lineare B di Pilo e Micene. Probabilmente il suo culto penetrò in Sardegna intorno al XIV – XIII sec. a. C. nella forma più cruenta, non mitigato dalla religione orfica.

(testi Prof.ssa Dolores Turchi)